Fino a che punto? – Riflessioni del Primo Maggio

Sull’onda di tutti quegli incontri organizzati per i prossimi laureandi, tempo fa è venuto in aula un manager di una società di consulenza. Trent’anni, giacca e cravatta, spigliato, evidentemente determinato. Ci ha parlato del luogo in cui lavora, e di quanto sia speciale rispetto agli altri. Certo, perché si sa, in consulenza non si hanno orari, in consulenza si entra in ufficio senza aspettarsi di uscire, in consulenza, a detta sua, potresti arrivare a lavorare 80 ore alla settimana. Ma loro sono diversi, loro ti fanno un favore: nei periodi di calma dieci ore al giorno sono sufficienti. Eppure ci ha tenuto a evidenziare che, raramente, gli è capitato di restare sveglio per 48 ore di fila.

Ma fino a che punto possiamo parlare di sacrificio? Che valore ha la nostra vita davanti a un lavoro che ti può togliere il sonno? Quanto siamo disposti a dare in cambio di uno stipendio e una carriera? A me sembra una follia. E la cosa più assurda, quella che più mi fa riflettere, è che venga vista come un’usanza normale. Arrivare a ventiquattro, venticinque anni, e ritrovarsi a non avere il tempo neanche per un caffè. Eh ma si cresce tanto… Eh ma gli stipendi sono più alti… Eh ma in cinque anni diventi manager… A che prezzo, però? Quello di perdere i contatti, non vedere più gli amici, riuscire a stento a passare del tempo con i fidanzati.

Un professore ci ha detto: io vi auguro di trovare un lavoro che richieda un impegno fuori orario, perché sono questi i lavori che creano valore. Ma sapete una cosa? Io non me lo auguro affatto. Perchè non si può pensare che sia giusto, che sia scontato sacrificarsi così. E se l’azienda pretende dei turni di oltre dieci ore, il problema non sei tu che sei stanco, il problema è quella politica aziendale che si nasconde dietro gli stipendi a doppi zeri per non assumere una persona in più. E il problema è anche un sistema rimasto fermo a cinquant’anni fa, che premia il lavoratore perennemente in ufficio, e guarda male chi si alza in orario dalla sua scrivania.

Ma si lavora per vivere, non si vive per lavorare. Dovrebbero insegnare questo, ai giovani. Invece ci dobbiamo sentir dire che i colpevoli siamo noi. Noi che non abbiamo voglia, che non accettiamo la gavetta, che pretendiamo il piatto pronto, che non siamo aperti ai sacrifici, che preferiamo stare sul divano con il reddito di cittadinanza in tasca. Siamo la generazione degli scansafatiche. Poi un Alessandro Borghese qualunque pretende di insegnarci la lezione: “Sarò impopolare, ma non ho nessun problema nel dire che lavorare per imparare non significa essere per forza pagati“. Ma i colpevoli siamo noi. Noi, che non accettiamo di lavorare gratis o per pochi spiccioli, anziché essere grati delle opportunità.

Ma io non ci sto.

E forse sarebbe il momento di iniziare a pensare anche a questo. Perchè i problemi non si risolvono soltanto con le leggi, i problemi sono anche, e soprattutto, culturali, e sono proprio questi i più difficili da sradicare.

20 pensieri su “Fino a che punto? – Riflessioni del Primo Maggio

  1. Anche quando insegnavo all’istituto tecnico venivano certi manager gasatissimi a parlare coi ragazzi… “e non crediate di chiedere ferie o permessi”… no, certo, schiavi forever e anche grati.

  2. E’ un falso mito che lavorando molto e dedicando tutto il nostro tempo al lavoro. si viva meglio e si diventi più ricchi.
    Ce lo fanno credere.
    Ma è solo una epidemia di infelicità.

  3. Sono totalmente d’accordo con te. Bisogna rivedere le proprie priorità e mettere al primo posto la vita. Che poi uno si debba guadagnare il pane, anche a costo di sacrifici, ci sta, ma senza mai perdere di vista il fatto che si lavora per vivere e non si vive per lavorare. La vita è una, e preziosa.

  4. Questi discorsi mettono un po’ ansia e credo che non siano nemmeno giusti. Bisogna lavorare per vivere, non il contrario. Diventa malsano farlo perché non puoi più gestire le tue relazioni sociali e la salute mentale mentale piano piano ne risente

  5. Io lo vedo nella differenza di noi anziani con vecchi contratti e i poveretti assunti adesso senza nessuna tutela. Costretti a subire ogni tipo d’angheria.
    Io ho scelto di avere tempo libero a discapito di un avanzamento di carriera, ma me lo potevo permettere.

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