L’assistente di volo – Quando la sottotrama è migliore della trama principale

L'assistente di volo: recensione della serie tv con Kaley Cuoco -  Cinematographe.it

[Potrebbe contenere anticipazioni]

Proposta da Sky come una delle serie imperdibili del momento, L’assistente di volo è l’adattamento cinematografico di un romanzo di cui non sapevo l’esistenza. Riuscito? Difficile dirlo senza aver letto l’idea originaria. Ma è stata una serie piacevole, contorta, ritmata, e con una bellissima sigla.

Cassandra Bowden è un’assistente di volo, una ragazza esuberante e dipendente dall’alcol che trascorre gran parte della propria vita in viaggio. Nei primi dieci minuti di episodio conosce Alex, si ubriaca, finisce a letto con lui, e il mattino dopo lo trova sgozzato nel letto. Da questo momento ha inizio la fuga di Cassie, che non ricorda nulla della serata e rischia di essere accusata di omicidio. Una storia di affari illeciti, riciclo di denaro, conti segreti, killer su commissione, un groviglio di eventi surreali ma ben pensati, che solo alla fine trovano una loro collocazione. Certo, si ha l’impressione di guardare per ore una Cassie ubriaca, un po’ matta, intrappolata in una situazione più grande di lei. Al suo fianco c’è Annie, eccentrica avvocatessa, riservata e apparentemente fredda, ma disposta a rischiare la propria carriera per aiutare l’amica. La fuga perpetua e il terrore di Cassie diventano il filo conduttore di una trama che sorprende poco, e che forse inizia a stancare già al terzo episodio.

Ma. C’è un ma. Perché quello che sembra l’inizio di un qualunque thriller americano, è in realtà un susseguirsi di spunti ed espedienti per raccontare ben altro. Tre sono le dimensioni spazio-temporali che s’intrecciano, e che aiutano lo spettatore ad entrare nel mondo di Cassie, quello che nemmeno lei ha mai compreso, quello che non ha mai avuto il coraggio di ascoltare. Non è solo un’assistente di volo che ruba le boccette di Vodka dagli aerei, non è solo una donna instabile che fatica a legarsi alle persone. La sua è stata un’infanzia difficile, segnata dagli abusi di un padre alcolista, che ha visto nella figlia niente più di una compagna di bevute. Eppure nella sua testa quel padre era buono, forse giusto un po’ brusco, ma suo amico. Forse perché è più facile rimuovere i ricordi più dolorosi, costruirsi una realtà distorta per sentirsi al sicuro, prendersela con un fratello che da quel padre è stato picchiato e umiliato, e che in fondo ha scelto di lasciarla per salvare sé stesso. La fuga di Cassie diventa quindi un percorso di redenzione, un’occasione per rimettere insieme i pezzi e riportare a galla la verità. Lo spettatore la segue nella sua corsa, flashback dopo flashback, verso un passato che l’ha fatta soffrire, e che rende il suo personaggio molto più profondo e complesso di quanto si potesse immaginare. Si comprende così il suo carattere, la sua dipendenza dall’alcol, il rapporto fragile con suo fratello, la sua paura ad affezionarsi alle persone, dando una dimensione tangibile ad una figura che sembrava solo una caricatura.

Poi ci sono le allucinazioni, i dialoghi fuoricampo con Alex, che diventano un po’ la voce della sua coscienza, e la accompagnano lungo la strada per il riscatto. C’è un motivo se Cassie, inconsciamente, si rifugia in lui. Perché in fondo Alex ha già compiuto quel passo, e può aiutarla davvero a guardarsi allo specchio, a prendere le decisioni giuste, e soprattutto, finalmente, a perdonarsi. Per tutto il tempo lo ritroviamo al suo fianco, come un amico immaginario, in ogni scena di quell’infanzia che la mente di Cassie ha snaturato. Dagli abusi contro il fratello Davey fino all’incidente d’auto in cui il padre ha perso la vita, quell’incidente per cui Cassie si è sempre sentita responsabile, perché era con lei che beveva, era con lei che si ubriacava, ma non lo aveva mai detto a nessuno. Eppure è un peso che una ragazzina non può sopportare da sola, ed è così che è caduta nella stessa trappola dell’uomo che ha visto morire, incapace di voltarsi indietro e di affrontare la verità. In carcere dopo aver commesso un atto di vandalismo, Cassie telefona proprio a Davey, e investita dalla consapevolezza gli chiede perdono. Una scena toccante che mostra tutte le doti di Kaley Cuoco, il primo passo di quel percorso di redenzione, e il primo momento in cui lo spettatore empatizza davvero con la protagonista. La figura di Alex scompare dalla sua mente solo quando Cassie trova il coraggio di fare quel passo, nel proprio passato, prendendo il volto di quella bambina ferita tra le mani, e riuscendo a dirsi per la prima volta: “Non è stata colpa tua“.

Strano a dirsi, lo sviluppo del personaggio di Cassie è forse la cosa più interessante della serie. In otto episodi la vediamo crescere, maturare, imparare a chiedere scusa, non solo a Davey, ma anche ad Annie, a Meghan, a Shane, a tutti quegli amici che le sono stati accanto nonostante cercasse di mandarli via. Non è una storia credibile o minimamente realistica, ma ti lascia qualcosa. Tanti spunti, tante sottotrame che avrebbero meritato più spazio, dall’infanzia di Cassie, snocciolata nel mezzo dell’azione, alle insicurezze di Annie, che non riesce a definirsi fidanzata con l’uomo che ama, fino alla sofferenza celata di Meghan, che pur di non sentirsi invisibile si presta a spiare il marito per conto del governo coreano. Nessun personaggio è perfetto, ma la risoluzione del mistero iniziale si accompagna alla chiusura di tanti capitoli rimasti in sospeso, donando alla serie una conclusione così naturale da sembrare un quadro. Cassie annuncia di voler smettere di bere, Annie confessa al fidanzato Max di amarlo, e Meghan chiede perdono al marito per quello che ha fatto, promettendo di voler risolvere le cose. Un finale che lascia aperta soltanto una fessura, permettendo allo spettatore di immaginare il futuro che più preferisce.

Sappiamo che ci sarà una seconda stagione, anche se probabilmente non sarebbe stata necessaria, ma a conti fatti è un prodotto che merita, se non altro per i personaggi che è stato in grado di raccontare.

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