Covid, io direi che sia quasi ora che tu levi le tende, no? Ho raggiunto l’apice del mio esaurimento nervoso, insieme a quello delle temperature bolognesi che oggi hanno sfiorato i 37 gradi. E non ho neanche un misero ventilatore comprato in un negozio cinese. Venerdì sera l’ho passato in videochiamata con un’amica, a raccontarci gli avvenimenti importanti delle nostre giornate: l’arrivo di un pacco di Amazon, un film da guardare, i programmi per finire la tesi di laurea. Insomma, ‘na botta di vita. E intanto mio nonno, di anni 86, esce a cena con gli amici e torna alle undici passate. Fa bene lui. Per il resto, si continua sulla via dell’asintomaticità, a parte l’insofferenza cresciuta esponenzialmente di ora in ora, e un pessimismo cosmico che farebbe invidia a Montale. Mi aggiro per la stanza come quei criceti in gabbia, che non riescono a decidere se vogliono correre sulla ruota o dormire. E poi fa caldo. Mi siedo alla scrivania e ho caldo. Mi sdraio sul letto e ho caldo. Sto sul tappeto e ho caldo. Avessi un impianto antincendio, mi metterei a fumare solo per far partire il getto d’acqua dal soffitto. Intanto la gente mi ripete in coro: RESISTI, DAI, CI SEI QUASI, ANCORA POCHE ORE, CE LA PUOI FARE! Ora, punto primo, non sto correndo la maratona, al più il mio contapassi si starà chiedendo se io sia ancora viva. Punto secondo, sarebbe bellissimo se dipendesse da me, ma non posso passarmi l’aspirapolvere in endovena per cancellare ogni straccia del Covinfame. Serve pazienza? E iniziate a produrla in pillole, ‘che qua le scorte bastano appena per ventiquattr’ore.

Attendo il verdetto di domani, consapevole che deciderà le sorti del mio viaggio a Torino in bilico per la terza volta.