Black lives matter quando pare a voi

Sergio Sylvestre è un cantante di origini statunitensi, ma vive in Italia dal 2012. È un ragazzo di colore, ed è assurdo che si debba specificare. Ma ieri sera è nata una violenta polemica, uno sfogo pieno di rabbia che a leggerlo fa paura. Era la finale di Coppa Italia, Segio ha cantato l’Inno nazionale in uno stadio vuoto, si è emozionato, ha sbagliato, e per questo è stato offeso e insultato. Per questo, e per aver alzato il pugno, gesto usato durante le proteste, quelle pacifiche, degli afroamericani negli USA.

“Ma chi ha avuto la bella idea di mettere a cantare, e male, l’ Inno, un panterone nero col pugno chiuso? Sarebbe l’italiano tipo? Siamo la repubblica del black lives matter?”

“Sei chiamato a cantare l’Inno alla finale di Coppa in diretta tv, ti pagano e tanto per farlo, non ne conosci le parole e non fai lo sforzo di impararle, toppi una strofa intera, alla fine invece di sparire e piangere fai il pugno e urli No Justice, No Peace? Ma ridacce li soldi.”

“🔴 Siamo passati allo sfregio degli inni nazionali. #innodimameli imbrattato da #SergioSylvestre”

“Ennesima tragedia del 2020, questa sera è stato ucciso l’inno nazionale.
Siamo una nazione finita in tutti i sensi.”

“Il pugno, la prossima volta, dattelo in faccia. Pagliaccio.”

“Bel modo di ringraziarlo, il paese che ti ha accolto. Storpiandone l’inno e insozzandolo con quel gesto finale abominevole. Che vergogna”

Queste sono sono alcune delle critiche che ha ricevuto, sempre se così possiamo chiamarle. Ma c’è qualcosa che non mi torna. Le piazze italiane non si erano forse riempite di cartelli con su scritto “Black lives matter”? Non abbiamo finto anche noi di combattere per quei diritti? Non ci siamo sentiti dalla parte del giusto per aver manifestato con loro? Funziona così? Che un giorno sogniamo l’integrazione dei popoli, e il giorno dopo torniamo ad odiare gli stranieri? E non è per Sergio Sylvestre, per il pugno chiuso scambiato per gesto comunista, o per un Inno d’Italia che viene cantato da tutti, neri o bianchi che siano, anche quando non ne conoscono nemmeno il significato. Non è per questo. Ma per il fatto che un errore abbia scatenato un’ondata di odio, di intolleranza, di rabbia ceca.

Non è normale. E forse dovremmo avere il coraggio di guardarci allo specchio, come popolo e come nazione, e ammettere che del “Black lives matter” in realtà non ce ne importa niente. Perché non ci crediamo davvero, e lo dimostriamo ogni giorno, senza che nessuno venga lì a puntare il dito, perché non siamo in America e non abbiamo vissuto la stessa Storia. Ma anche noi siamo bianchi, anche noi  siamo stati capaci di odiare. Lo siamo tutt’ora. E nelle stesse piazze ci sono persone che un giorno gridano “Black lives matter”, e il giorno dopo “Prima gli italiani”. Persone che difendono i diritti degli afroamericani, ma vorrebbero rispedire tutti i migranti a casa loro. Persone che pubblicano i pensieri di Martin Luther King sui social, ma che sputano ai piedi dei poveri che vivono per strada. C’è un’ipocrisia di fondo, ed è quella che ci farà crollare. Non l’odio, non l’intolleranza, nemmeno la rabbia. E’ l’incapacità di ammettere quello che siamo davvero. Sarà sempre inutile sognare un mondo migliore, se non riconosciamo nemmeno i nostri limiti, i nostri veri pensieri, se ci limitiamo a copiare gli altri indossando le loro ragioni, anche quando ci vanno strette, anche quando una maschera ci copre il volto. Sovranismo, come se il termine fosse nato dispregiativo. Ma non credo si tratti di questo. Cos’è? Paura? Timore di non farcela? Di non essere all’altezza? O magari consapevolezza? Non lo capisco. Ma del resto ho sempre visto tanta gente arrabbiarsi, nascondersi dietro rancori perenni, dimenticare perfino le ragioni, e non accorgersi che in fondo, per cambiare, basterebbe iniziare a volerlo. Ma forse non vogliamo davvero cambiare, così come non crediamo al “Black lives matter”, e così come abbiamo insultato Sergio Sylvestre per aver sbagliato il testo dell’Inno, dimenticando che l’anno scorso un Ministro dell’Interno lo ha ballato in spiaggia insieme a delle cubiste.

Siamo il popolo dell’ipocrisia. Quello che protesta per moda, che se la prende con gli africani che rubano il lavoro, con i beni importati che annientano i prodotti italiani, con la Germania che non ci regala i soldi, ma non si chiede il perché di tutto questo. Non si accorge che quegli africani vanno a raccogliere la frutta, per pochi euro al giorno, e che nessun italiano vorrebbe farlo al posto loro. Non si accorge che è lui stesso a comprare le fragole sudamericane a dicembre, perché non sa aspettare. Non si accorge che la Germania ha un rapporto debito/PIL al 60%, mentre da noi sfiora il 160%. Come se vivessimo esenti da colpe, giustificati per tutto, perché in fondo si può sbagliare, ma non serve chiedere scusa. Basterebbe soltanto un po’ di onestà e un po’ meno omertà. Non serve una mente brillante per capirlo. Nemmeno nella gestione dell’emergenza sanitaria abbiamo avuto il coraggio di riconoscere delle responsabilità. E allora forse è proprio questo il motivo per cui non ne siamo usciti migliori. Per quella dannata ipocrisia che ci fa alzare il pugno come Sergio Sylvestre, ma nell’altra mano stringiamo una pietra da scagliare al vento, perché ci sentiamo tutti senza peccato. Come si può migliorare se si pensa di essere perfetti? Come si può smettere di commettere lo stesso errore se non ci si accorge degli sbagli?

Non è la prima volta che leggo insulti sui social network, ma questo è un periodo particolare, un periodo in cui ogni parola ha un peso, in cui basta una scintilla per far scoppiare un incendio, in cui ognuno stringe il pugnale tra i denti, pronto a colpire il primo uomo imperfetto che gli capita a tiro. Ed è questo che dovrebbe far riflettere. Come siamo arrivati a questo? Me lo chiedo da settimane, ma ogni volta sembra di toccare un punto più basso. Per chi sogna di sfiorare il cielo con un dito, le domande sono tante. Perché c’è la voglia di migliorare, di credere davvero in quello per cui si combatte, ma c’è il rischio di pensare che non ne valga la pena. Ci si guarda in giro, e si vedono soltanto specchi con le immagini al contrario.

Non è un Inno cantato con la mano sul cuore a fare grande un paese. Sono le persone che lo vivono. Le persone. Come quelle che ieri sera hanno gridato indignate contro un ragazzo di colore, e che forse un mese fa, dopo aver condiviso le foto di George Floyd, si saranno sentite migliori.

13 pensieri su “Black lives matter quando pare a voi

  1. Belle parole, brava; le condivido dalla prima all’ultima; non sopporto di vedere in televisione, o leggere sui giornali le barbarie che ogni giorno, ogni ora, quasi, si consumano ai danni di chi dagli altr simili è considerato diverso per menomazioni fisiche, o – come in questi ultimi casi – per il colore della pelle. A distanza di secoli, non si è ancora capito che siamo tutti uguali? Continuo a restare senza parole.

  2. Non credo che siano state le stesse persone quelle alla protesta e quelle degli insulti. Forse qualcuno sì, ma non la maggior parte. E non trovo che una cosa escluda l’altra: proprio perchè ci sono persone razziste, dichiarate o non proprio dichiarate che sostengono la politica “aiutiamoli a casa loro”, le proteste hanno ragione di esistere. Trovo buono, e non ipocrita, che si manifesti contro le discriminazioni che molti nel nostro paese portano avanti

    • A me fanno pensare tante cose. Che il primo partito in Italia sia quello che semina razzismo più degli altri, ad esempio. E che in fondo le manifestazioni si siano rivolte per lo più al caso americano, e molto meno a quelle che avvengono nel nostro paese. Poi è ovvio che l’azione in sé è positiva, ma qualcosa che stride secondo me c’è

    • Ti allego la risposta che ho scritto a lei allora: “A me fanno pensare tante cose. Che il primo partito in Italia sia quello che semina razzismo più degli altri, ad esempio. E che in fondo le manifestazioni si siano rivolte per lo più al caso americano, e molto meno a quelle che avvengono nel nostro paese. Poi è ovvio che l’azione in sé è positiva, ma qualcosa che stride secondo me c’è” 🙂

  3. Sì, sono d’accordo con te… solo non mi piaceva il tuo generalizzare, parlare del popolo italiano come un’entità unica. Non mi piace proprio pensare a un ‘popolo italiano’, se non riferito a coloro che vivono in Italia… e in mezzo a questo popolo c’è chi ha insultato, chi ha protestato e ci sono anche persone di colore. Solo questo, con il concetto in sè però sono d’accordo

    • Hai ragione su questo, mi sono espressa male, forse anche perché ho scritto di getto e sul momento… neanche a me di solito piace generalizzare, l’ho usato a sproposito per esprimere il concetto ma capisco il tuo commento 🙂

  4. Avevo sentito parlare di questo episodio ma non avevo capito appieno cos’era successo. Ora mi è chiaro. Ahimè come dici tu, siamo in tanti pronti a rispettare, capire e accettare, ma tanti non lo fanno e lo esprimono chiaramente, e poi ci sono quelli che son solo parole.

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