Sarà stato un caso, o forse una scelta voluta, ma ieri sera ho visto un film, che si chiama “Il coraggio della verità”. E non esagero se dico che alcune scene sembravano prese dai telegiornali di questi giorni. Una storia difficile, quella di una battaglia irrisolta, della violenza ingiustificata, e della morte per mano della polizia. Starr ha sedici anni, e visto quella morte, ha visto il suo amico cadere a terra, e il poliziotto impugnare la pistola. Erano stati fermati insieme, per un banale controllo, ma il ragazzo ha allungato il braccio per prendere una spazzola: questa è stata la sua colpa, il suo ultimo gesto prima di morire. Un ragazzo nero, forse diverso, forse pericoloso, con una spazzola che poteva sembrare un’arma. Dubbi che sono morti con lui. E le proteste della comunità afroamericana, i cartelloni che domandano giustizia, sembrano immagini tratte da un notiziario. È dove il film si sovrappone alla realtà, ricalcandone anche i tratti più duri, e ti lascia quadi un senso di sgomento, di assoluto timore per quello che accade davvero, in un continente come il nostro, ma che ci sembra lontanissimo. Il film chiede giustizia per Khalil, ma è in questi giorni che tutti noi stiamo chiedendo giustizia per George Floyd, ucciso da un agente di polizia a Minneapolis. Stessa lotta contro il pregiudizio, contro l’omertà, contro l’abuso di potere dei poliziotti bianchi. Il film racconta il dolore di Starr, la difficoltà nel raccontare quello che è successo, la sua paura di diventare la ragazza del ghetto, dopo anni trascorsi in una scuola privata, circondata da gente bianca. Là dove le proteste arrivano, ma sono soltanto una scusa per saltare i compiti in classe.”Era un ragazzo nero, lo avrebbero ucciso prima o poi”, e il problema è tutto in questa frase. Detta da una ragazza bianca, da quella che Starr riteneva un’amica, e non è l’unica a pensarlo, a ritenere la vita di Khalil meno importante. È vero, non era innocente, lui spacciava droga. Aveva bisogno di soldi, sua nonna era malata, e non è una giustificazione, ma nel film si dice una cosa, che probabilmente va presa più come una provocazione, ma che in fondo fa riflettere.
– Perchè credi che tante persone nel quartiere spaccino?
– Hanno bisogno di soldi.
– Già, e non ci sono veri lavori da queste parti, e così cadono nella trappola.
– Quale trappola?
– La droga è un’industria da miliardi di dollari. I tipi come me e Khalid ci cascano perché sembra l’unica via d’uscita. Quella merda arriva in aereo nella nostra comunità. Ma io non conosco nessuno che possiede un jet privato. […] E poi ci intrappolano. E finiamo in prigione, un’altra truffa da un miliardo di dollari. Loro si muovono come se fossimo su un nastro trasportatore.
Nell’immaginario comune, la droga non appartiene ai bianchi. Come quando si pensa che i malavitosi italiani siano tutti del sud. Nessuno è privo di colpe, esiste un filo invisibile che lega ognuno di noi, chi agisce, chi guarda in silenzio, chi decide di parlare. Non viene detto che la comunità afroamericana sia perfetta, perché non lo è. La criminalità esiste, il quartiere spaventa, le loro scuole sono pericolose. Ma nella sincerità con cui è stato girato il film, uno spunto di riflessione viene inserito tra le righe di un dialogo tra padre e figlia: un ex carcerato e una testimone di un omicidio. Ci si domanda se in fondo la questione principale sia la morte di Khalil, o se invece il protagonista principale sia il sistema, corrotto, contraddittorio, ingiusto. Fa male vedere i poliziotti minacciare dei ragazzini, perfino in un film, eppure è quello che succede davvero. E non perché conoscevano Khalil o perché spacciavano droga. È perché hanno la pelle scura, e questo fa paura. C’è un dialogo che ho voluto trascrivere, e che rende l’idea di come esistano regole non scritte, convenzioni innaturali, che spiegano certi comportamenti. E non è un caso se Starr si confronta con suo zio, un poliziotto, un uomo di colore come lei, e come Khalil.
– Alcuni non pensano che quello che è successo a Khalil sia un crimine, ma solamente un controllo stradale finito male.
– Ma come?
– Quando un poliziotto ferma un’auto gli passano tante cose per la testa, soprattutto se comincia una polemica con il conducente sul perché sia stato fermato. Fa scattare un allarme. L’agente pensa “stanno nascondendo qualcosa, l’auto è stata rubata”. E se c’è una ragazza sul sedile del passeggero come te, si chiede “lei starà bene? È stata picchiata o violentata?”. Se poi i due cominciano a parlare tra di loro e non con l’agente, potrebbe pensare che stiano cercando di distrarlo. “Nascondono qualcosa nell’auto, della droga o un’arma”. Se il conducente ci insulta cerchiamo di tenere la situazione sotto controllo verbalmente, ma se continua a non collaborare allora dobbiamo usare la forza.
– Ma non sai ancora se hanno fatto qualcosa di sbagliato.
– È per questo che li perquisiamo. Per assicurarci che non abbiano addosso delle armi. Controlliamo la patente, gli ordiniamo di non muoversi, ma se loro aprono lo sportello o allungano un braccio nel finestrino aperto, stanno probabilmente prendendo un’arma. Perciò se credo di vedere una pistola non posso esitare. Io sparo.
– Tu spari? Perchè credi di vedere una pistola? Non dici niente prima, tipo “metti in alto le mani?”
– Dipende. È notte? Riesco a vedere? Sono in servizio da solo?
– E se tu stessi in un quartiere di bianchi, e ci fosse un uomo bianco, vestito elegante, che guida una Mercedes. Potrebbe essere un narcotrafficante, no?
– Sì, potrebbe.
– Quindi se lo vedessi allungare un braccio nel finestrino, e pensassi di aver visto una pistola, tu gli spareresti? O gli diresti “metti in alto le mani”?
– Gli direi “metti in alto le mani”.
– Hai sentito cos’hai appena detto?
È come se tutto avesse una ragione. Come se fosse legittimo sparare per un dubbio, in nome di un timore alimentato dal pregiudizio. Ma è questo che succede. Magari anche noi, senza nemmeno accorgercene, non aspettiamo le risposte. Come quando stringiamo la borsa al fianco se una persona di colore si avvicina. Non è forse la stessa cosa? Non è forse in nome dello stesso timore alimentato dal pregiudizio? Ma quanto sappiamo davvero di loro? Perchè guardando il film, a volte mi sono sentita un po’ come quei ragazzi bianchi, che scioperano per saltare il compito in classe, e che nella morte di Khalil vedono un’ingiustizia, ma meno grave delle altre. Mi sono sentita come quei ragazzi bianchi che parlano al plurale, e che dicono di stare dalla parte degli oppressi, ma dentro pensano che “era un ragazzo nero, lo avrebbero ucciso prima o poi”. Ed è brutto, perchè ci si accorge di come il pregiudizio possa vivere in noi anche senza farcene accorgere. È facile essere amici della ragazza nera con la divisa scolastica, ma chi conosce davvero la sua storia? Le sue origini? Il suo vissuto? Chi conosceva Khalil, figlio di una tossicodipendente, un ragazzo nato nel quartiere sbagliato?
Nel film si cita spesso un acronimo, T.H.U.G. L.I.F.E., The Hate U Gave Little Infants Fucks Everybody, ossia: “L’odio che trasmettete ai più giovani fotte tutti”. E il senso del film è proprio questo. È racchiuso in una delle scene finali, quando il piccolo Sekani, il fratellino di Starr, impugna la pistola del padre, e la polizia si schiera davanti a lui con le armi cariche. È un odio innocente, assorbito da fuori, ma Sekani è troppo piccolo per comprenderlo. Ha soltanto visto un mondo in guerra, pieno di rabbia e di violenza, e non ha potuto fare domande, perchè non esistono risposte. Ma Sekani significa Gioia. Il padre lo ha chiamato così, perchè vuole per i suoi figli un futuro migliore. Sekani, gioia. Seven, il numero della perfezione. E Starr, con due erre, perchè la sua luce è più potente delle altre. Un messaggio di speranza, perchè le cose si possono cambiare, ma bisogna volerlo davvero. Ecco il coraggio della verità. Anche quando quella verità non viene ascoltata o non viene creduta. Perchè vale sempre la pena di lottare per la verità.
“Quando sei pronta a parlare, parla! Non permettere a nessuno di farti stare zitta! Non ti ho chiamata Starr per caso!” (Padre di Starr)