Ritorno al bosco dei 100 acri

Non sono mai stata una bambina appassionata di Winnie The Pooh, anche se ho avuto svariati peluche, ho visto svariati cartoni e ho letto svariate storie. Ma quello che ho visto non è un cartone animato per bambini, non è una favola per farli divertire o addormentare la sera, è un film vero e proprio, con attori in carne ed ossa e scenografie di città e boschi. Poi c’è il lavoro immenso dei computer, che oramai riescono a ricreare con gli effetti speciali qualsiasi genere di personaggio, realistico come se lo si potesse toccare, abbracciare, stringere. Winnie è un peulche, peloso e tenero, con due occhi espressivi e un animo da animaletto con poco cervello, è quello stesso orsetto biondo disegnato sulle pagine, dotato di voce e di movimento, impacciato e goffo, sciocco e pieno di bene. E’ impossibile rimanere apatici, l’infanzia ritorna davanti allo schermo, e quel peluche pieno di pelo che combina guai mi fa tenerezza, mi fa sciogliere con gli occhi a cuoricino desiderando di possederlo anche io. Il film accosta i due mondi del reale e del fantastico, li incastra alla perfezione creando un connubio che somiglia ad un sogno, uno di quelli che tutti quanti abbiamo fatto da bambini, dove i pupazzi stesi sul letto prendevano vita e cominciavano a parlare con noi. Christopher Robin non è più un bambino, ma un adulto in carriera che ha dato tutta la sua vita per il lavoro, trascurando i sogni e nascondendo l’infanzia, negando il gioco e la fantasia. Per quella convinzione che nella vita il futuro sia più importante dell’oggi, Christopher trascura perfino la sua famiglia, e la figlia che lui crede di aver sempre desiderato, diligente e brava a scuola, sente la sua mancanza in silenzio. Sembra la normale situazione di una famiglia qualunque, costretta a sacrificarsi per rimanere a galla, rinunciando al presente per poter avere un appiglio nel futuro, anche se manca un equilibrio, anche l’ingiustizia più grande è proprio privarsi della vita di adesso. Nel frattempo il computer disegna Winnie disperso e solo, che non ha mai dimenticato il suo vecchio amico Christopher e il giorno in cui si sono promessi di continuare a volersi bene: è un orsetto grande quanto un neonato, che sullo schermo appare in primo piano e strappa ogni tanto una risata, ogni tanto una lacrima, perché è come un bambino alle prese con i primi sentimenti veri. E’ Winnie the Pooh che per primo piomba nel mondo reale del suo padrone, lo riconosce e si ricongiunge a lui, cercando di aprire un portone chiuso che è l’infanzia negata di Christopher. Le avventure allietano, sono un piacevole salto nei ricordi passati, e le due ore di film scorrono rapide, senza indugi e senza troppe pretese. Winnie e i suoi amici, Ih-Oh, Tigro, Pimpi, Tappo, Uffa, Kanga e Ro, riportano un po’ d fantasia nel cuore dell’uomo, che dopo anni ritorna a giocare, a fingere di combattere contro un efelante, a ridere con dei peluche animati che poco prima non lo potevano riconoscere. Solo quando riemerge l’animo bambino di Christopher, il bosco dei cento acri si illumina di raggi di sole, la nebbia evapora e i loro abitanti riabbracciano il proprio bambino cresciuto. Questo legame non si spezza nel passaggio dal bosco alla città di Londra, e l’uomo adulto dedito al lavoro trova finalmente il coraggio di accettare il suo essere stato bambino, e di abbracciare la propria figlia vedendo nei suoi occhi quelli di lui, nel bosco dei cento acri, felici con Winnie the Pooh. Si crea una nuova famiglia, una nuova amicizia tra la bambina, nuova al mondo dei giochi, e i peluche computerizzati, proiettati nel mondo attuale della città, delle auto, delle cabine telefoniche, delle valigette che contengono tanti fogli importanti, che non sono un gioco. Tutti hanno da imparare da tutti, ma Christopher Robin è il primo a cambiare, a togliere la maschera dell’uomo in carriera freddo e determinato, a riconoscere un Winnie the Pooh che con gli occhi dolci e commoventi gli chiede di poter avere un palloncino. Winnie è come un bimbo, quel bimbo che è volato via negli anni dall’anima di Christopher, e che ora torna tra le sue braccia come se non se ne fosse mai andato. Come ho detto, è un film senza pretese, per nostalgici?, forse, ma molto più probabilmente per tutti. Per gli amanti di Pooh e per chi non lo conosce, per i bambini e per gli adulti, per i dediti al lavoro e per i nullafacenti. E’ un film tenero, che ti fa desiderare che Winnie e i suoi amici siano reali, morbidi così, con le vocine spaventate dalla grandezza delle macchine e la capacità di volare senza rompersi mai. E’ un film che si guarda perché in fondo è una bella storia, la storia di un abbandono che ha saputo trovare un lieto fine, un’amicizia spezzata dalle scelte della vita, e ritornata come una nuova occasione da sfruttare. E’ la dimostrazione che l’infanzia, felice o triste che sia, ha tanto da insegnare perfino dove non sembra, e cancellarla non sarà mai possibile. E’ la prova che il bambino dentro di noi non smette mai di vivere.

Ho apprezzato tanto la costruzione del film, l’attenzione al dettaglio, la rappresentazione così realistica degli animali da sembrare quasi in tre dimensioni. Gli occhi di Winnie guardano in camera, cercano gli occhi dello spettatore, e le emozioni che una semplice voce di un doppiatore può trasmettere, ecco, arrivano, arrivano tutte. E’ il caso di dirlo, questa volta il computer ha creato la magia.

Christopher Robin: Ciao a tutti!
Tigro: È Christopher Robin!
Christopher Robin: Che bello rivedervi!
Pooh: Oh, grazie!
Christopher Robin: Sciocco di un orsetto!

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