Non abbiamo forse tutti immaginato che le serie televisive americane vogliano esaltare l’immagine del proprio paese? Abbiamo mai preso in considerazione l’idea che una di esse riesca a mettere in cattiva luce gli ambienti governativi e i servizi segreti degli Stati Uniti d’America?
Carrie Mathison è un’agente al servizio della CIA, una personalità forse e complicata, che per otto stagioni traina ogni azione combattendo contro il mondo. E’ un’agente fuori dal comune, totalmente irresponsabile, al limite della legalità, indipendente e senza punti di riferimento reali e sicuri. L’unica persona a cui è legata davvero è Saul Berenson, colui che l’ha reclutata nei servizi segreti riconoscendone il potenziale e le incredibili capacità intuitive. Ma Carrie non è una persona semplice da gestire. E’ affetta da bipolarismo, spesso agisce d’impulso mettendo a rischio sé stessa e le persone a lei vicine, fatica ad accettare un no come risposta, se si mette in testa un obiettivo fa di tutto per raggiungerlo. Non sono propriamente le qualità che un agente della CIA dovrebbe avere. Ma “Homeland” riesce ad andare oltre tutto questo. Dietro al personaggio principale di Carrie si snodano intrighi internazionali che vedono coinvolti terroristi islamici, infiltrati russi, hacker informatici, senatori corrotti, casi di violazione dei diritti civili dei cittadini americani. Una macchia dopo l’altra che dipingono un’immagine poco limpida degli Stati Uniti come li conosciamo. Certo, è una serie televisiva, ma gli autori hanno avuto il coraggio di sfruttare tematiche dure e reali, una tra tutte? Al Qaeda, per introdurre ben otto stagioni di trame avvolte a matassa. Le prime tre si sviluppano attorno al sergente Nicholas Brody, convertitosi all’Islam e infiltrato tra i vertici degli organi governativi con l’obiettivo di compiere un attentato. Probabilmente sono quelle più riuscite, quelle che riescono a tenere con il fiato sospeso e ad analizzare ogni sfaccettatura del soldato americano. Perché dietro la figura del terrorista c’è un padre di famiglia, un sopravvissuto di guerra, un uomo che probabilmente si sente attratto da Carrie al punto tale da fidarsi ciecamente, un pentito per non essere riuscito a salvare una vita umana. Nicholas Brody non è soltanto un cattivo, un criminale, un possibile pluriomicida, perché attraverso lo sguardo di Carrie lo spettatore riesce a catturare la sua personalità per intero, e quasi a provare una sorta di strana empatia. E’ forse uno dei più grandi meriti di questo inizio della serie. Certo, il personaggio di Nicholas esaurisce il suo ruolo, e dalla quarta stagione assistiamo a un’evoluzione della figura di Carrie, divenuta unica colonna portante e artefice del destino di tutti gli altri. E’ una Carrie instabile, che assume quotidianamente clozapina, che deve gestire una figlia totalmente inattesa e una missione nelle terre del Pakistan, è una mente brillante in un corpo ingestibile, che non riconosce i pericoli finché non ci sbatte contro, che darebbe la vita per il suo lavoro, anche in barba alle persone che le vogliono bene. Si concentra forse poca attenzione sul lato umano e complesso di Carrie, che sin dalle prime stagioni riesce quasi a far perdonare allo spettatore i modi poco ortodossi di interrogare, spiare e indagare per lo stato americano. L’attenzione si focalizza suo ruolo di agente della CIA prima, e avvocato per i cittadini americani musulmani poi, ritagliando poche intense scene per le sue relazioni più intime con la figlia e con la sorella Maggie, relazioni complesse, legami che la malattia di Carrie rafforza e poi logora come conseguenza quasi naturale. E’ un peccato, perché la trama procede bene, si sviluppa intorno a questioni scottanti e che potrebbero essere addirittura più attuali di quanto pensiamo. Un’infiltrata russa alla guida dell’intelligence americana, i servizi segreti russi che cercano di controllare le politiche del governo, sono tematiche a cui viene riservato un ampio primo piano e un’attenzione al dettaglio minuziosa. E’ una serie televisiva che non si può guardare a tempo perso, richiede attenzione, a volte richiede di guardare due volte uno stesso episodio, perché una volta spiegato il personaggio di Carrie, il regista lascia libero sfogo al suo spirito libero e alle sue associazioni di pensieri, senza intermediazioni o spiegazioni fuoricampo. Lo spettatore segue la mente di Carrie nel risolvere scandali internazionali che sporcano l’immagine degli Stati Uniti d’America e non solo. E’ interessante osservare come questo cambiamento necessario non abbia allontanato gli spettatori, che dopo l’abolizione del personaggio di Nicholas Brody avrebbero potuto abbandonare la serie, a giusta ragione, invece la mezza rivoluzione dei copioni è stata mascherata dietro l’ennesimo ruolo da agente della CIA di Carrie, ultimo legame da rompere con le prime stagioni e con un trascorso che ormai non le appartiene più. Le modifiche sono graduali, in modo tale da coinvolgere il pubblico e farlo abituare alle novità, pur mantenendo intatta la personalità portante dell’intera serie. E non annoia, perché ogni volta Carrie indossa panni diversi.
E’ una serie tv che deve piacere, di certo non si può costringere una persona a vederla dicendo che “è divertente”. Non lo è. Ma è magnetica, ti fa incuriosire, sfruttando forse l’attrazione che tutti abbiamo per i lavori dei servizi segreti e del governo degli Stati Uniti. E’ una serie costruita bene, con intelligenza e dedizione, riuscendo a mantenere alto il livello, la qualità della sceneggiatura e l’ottima recitazione di Claire Danes nei panni della protagonista. Di certo Carrie non è un esempio da seguire, come agente e come madre. Probabilmente è tutto il contrario di quello che dovrebbe essere, genio e sregolatezza, ma è devota al proprio paese al punto da essere disposta a dare anche la vita. Ma è una serie che merita di essere vista. A mio modestissimo ed ignorante parere, ovviamente.
Adeland – Caccia alla Penny 🤣🤣🤣
Concordo.