Dieci piccoli indiani, Agatha Christie

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Un libro geniale. Un intricato racconto che mescola suspance e calcolo rigoroso, uno schematico procedere degli eventi che non lascia spazio alle previsioni. Dieci personaggi riuniti sotto lo stesso tetto, dieci pedine di un gioco al massacro che accresce la tensione, dieci, come i negretti della poesia che muoiono uno dopo l’altro, e come le statuine sul tavolo da pranzo che pian piano scompaiono. E’ un vicolo cieco, e i corpi esanimi sembrano portare ad una verità ogni volta diversa, ogni volta peggiore. Tra di loro c’è un assassino, tra di loro qualcuno sta realizzando una carneficina. Che sia il misterioso Signor Owen, il firmatario dei dieci inviti, il volto sconosciuto che non si è mai presentato? Che si sia nascosto sull’isola prima della tempesta, intrappolando dieci persone e condannandole a morte? Agatha Christie pianifica un sistema ad incastro perfetto, in cui ogni mossa appare insensata e la realtà non sembra avere spiegazioni logiche, mai, fino all’ultima pagina. I dieci personaggi non si conoscono, ma qualcosa sembra accomunarli: la colpa. E’ la voce anonima di un grammofono ad accusarli, elencando gli omicidi di cui si sono macchiati e l’assoluzione dai propri crimini, alcuni più gravi, altri meno gravi, ma nel gelido silenzio che segue la rivelazione viene decretato l’inizio della fine. Il primo a morire è il signor Marston, per una dose di cianuro versata nel suo bicchiere. Poi un’iniezione di sonnifero, un colpo di ascia, uno sparo, ogni morte è diversa dalle altre, e ad ogni morte una statuetta scompare dal tavolo da pranzo. Ricorda un po’ il gioco delle sedie, una persona è sempre di troppo, una persona dev’essere eliminata. Il piano viene eseguito con freddezza meticolosa, quella villa isolata su di un’isola deserta diventa una trappola, una condanna peggiore del carcere, e ben presto la paura prende il sopravvento, i personaggi decadono alla stregua di bestie, incapaci di fidarsi gli uni degli altri, sospettosi perfino della propria ombra. Quel terrore disumano è come un faro puntato negli occhi, e nessuno riesce a scorgere la verità sotto il proprio naso. Eppure è così semplice, alla fine… E’ una questione di istanti, di lucidità meccanica, è il frutto di una mente complessa che si pone un solo obiettivo: fare giustizia. Dai peccati meno gravi a quelli più gravi, i personaggi diventano la personificazione dei propri errori, dei cartonati da rompere uno dopo l’altro, in nome di una giustizia che in passato non ha funzionato. Ma questo, il lettore, lo può solo intuire. Ecco la suspance, ecco la lettura inquieta che da romanzo giallo porta ad un’altra dimensione. Perché effettivamente un detective non compare mai. Sono gli stessi superstiti ad improvvisarsi investigatori, a fare domande, ad accusarsi a vicenda stremando gli avversari, è un tutti contro tutti che non può avere un lieto fine, perché ogni strada è un vicolo cieco, ogni teoria una menzogna dettata dalla paura. Il lettore divora i capitoli con l’avidità di un poliziotto, curioso di leggere dell’arresto finale del colpevole, ma questo romanzo è diverso dagli altri, non segue la struttura classica né gli schemi dei più famosi prototipi. Agatha Christie semina indizi per poi smentirli, e in un climax ascendente è la follia ad impadronirsi della situazione, ad ogni statuetta scomparsa gli uomini sono sempre meno uomini, l’ombra della morte incombe, e il senso di impotenza li riduce a dei disperati giocatori di una roulette russa. In fondo non esiste una via di fuga, un nascondiglio, una via di comunicazione oltre il mare. Sono intrappolati lì. L’assassino si prende gioco delle proprie vittime, le muove come se fossero pedine degli scacchi, le controlla prevedendo le loro reazioni, studiandone a fondo la dimensione psicologica, erigendosi a giudice supremo delle colpe segrete, fino alla mossa finale. Scacco matto. Anche l’ultima statuetta è caduta, frantumatasi in mille pezzi sul pavimento. Anche l’ultimo negretto è stato giustiziato.

Dieci poveri negretti
se ne andarono a mangiar:
uno fece indigestione,
solo nove ne restar.

Nove poveri negretti
fino a notte alta vegliar:
uno cadde addormentato,
otto soli ne restar.

Otto poveri negretti
se ne vanno a passeggiar:
uno, ahimè, è rimasto indietro,
solo sette ne restar.

Sette poveri negretti
legna andarono a spaccar:
un di lor s’infranse a mezzo,
e sei soli ne restar.

I sei poveri negretti
giocan con un alvear:
da una vespa uno fu punto,
solo cinque ne restar.

Cinque poveri negretti
un giudizio han da sbrigar:
un lo ferma il tribunale,
quattro soli ne restar.

Quattro poveri negretti
salpan verso l’alto mar:
uno un granchio se lo prende,
e tre soli ne restar.

I tre poveri negretti
allo zoo vollero andar:
uno l’orso ne abbrancò,
e due soli ne restar.

I due poveri negretti
stanno al sole per un po’:
un si fuse come cera
e uno solo ne restò.

Solo, il povero negretto
in un bosco se ne andò:
ad un pino si impiccò,
e nessuno ne restò.

E’ ammirevole come la Christie abbia costruito un intreccio così denso, intricato, come un labirinto le cui strade portano anche a muri invalicabili e vie senza uscita. Niente è lasciato al caso, e non per nulla è stato il romanzo per lei più arduo da scrivere. Ma è stata ripagata a dovere. Con il suo record di 110 milioni di copie, è il libro giallo più venduto in assoluto, e si è piazzato all’undicesimo posto nella classifica dei best seller con più incassi della storia (terzo posto se consideriamo solo i romanzi). E pensare che avevo sempre sentito parlare di “Dieci piccoli indiani”, ma la mia fervida immaginazione si immaginava tutta un’altra storia, magari ambientata in America ai tempi degli indigeni…

Sarà un romanzo da record, ma vale davvero la pena di leggerlo.

Fonte: wikipedia

14 pensieri su “Dieci piccoli indiani, Agatha Christie

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