Sedevo ogni giorno davanti al computer, con le dita sulla tastiera, energiche come se avessi appena bevuto una Redbull. Sistemavo la luce, la luminosità dello schermo, gli occhiali sul naso, e… Silenzio. Il silenzio ustionante di una pagina bianca da riempire. Il mio ultimo romanzo risaliva a… non ricordo, quattro anni? Cinque? Oramai perfino mia madre lo usava per bloccare il tavolo di cucina dal suo traballare. O come fermaporte. Funziona, così mi dicevano. Certo non è la massima aspirazione per uno scrittore di discreto successo vendere mattoncini di carta come fermaporte. Ma tant’è. L’impegno lo avevo preso. Qualcosa avrei dovuto scrivere. Così mi era venuto in mente di raccontare me stesso. Sai quando da piccolo ti riempiono la testa di discorsi filosofici sulla morale, ti ripetono allo sfinimento che devi essere te stesso, che non devi cambiare per nessuno al mondo, eccetera eccetera? Ecco. Sentivo quella vocina nelle mie orecchie che mi assilla in questa stanza, e non riuscivo a scrivere una riga. Ma che assurde pretese… Cosa gliene frega, ai miei lettori, di conoscere la mia vita? Io sono uno scrittore di gialli, io ammazzo i personaggi e sbatto in galera gli assassini, solo questo. Non sono un regista che perseguita le marionette per cinquecento statiche pagine, raccontando la loro colazione o la cravatta sudicia del bisnonno del padre. Sedevo per ore davanti allo schermo che diventava nero, e non avevo nemmeno il coraggio di premere un tasto, perché quel bianco mi spaventava. Blocco dello scrittore. È grave? No, non lo è. Certo, va diagnosticato in tempo. Ma esiste una cura, una cura personalizzata per ognuno di noi scrittori.
La mia casa editrice mi chiede a che punto sia il mio romanzo, me lo chiede insistentemente da un paio d’anni, ma ultimamente lo fa in modo diverso. Sì, mi domanda se abbia cominciato almeno il primo capitolo. L’ho cominciato, sì. È nel primo capitolo che mi presento. Salve a tutti, sono Mark Stevens, scrittore in pausa di riflessione. Questo romanzo parlerà di me, uomo comune sposato con una donna comune, padre di due bambini comuni, che vanno a scuola con altri bambini comuni. La mia vita è normale, comune, fatta di routine come cucinare, accompagnare i figli a nuoto, fare la spesa, e disgrazie casalinghe quali la lampadina bruciata, il televisore rotto, la macchia di caffè sul pavimento. Sono un tuttofare che lavora dietro una scrivania, e le sue migliori avventure le ha vissute dentro uno schermo, con il solo ticchettio della tastiera in sottofondo.
Scrivo per lavoro e per passione, anche se a volte l’ispirazione manca. E attenzione, non confondete mai i due concetti. Perchè la passione non svanisce mai, è l’ispirazione che sfugge come una zanzara in piena estate, cerchi di schiacciarla per osservare il sangue sulla carne bianca, ma puntualmente ti ride in faccia e non si fa trovare. In questo preciso istante sto cercando di afferrare questa zanzara insolente, e nel mentre la pagina bianca si sta riempiendo di parole vuote, banali, rumorose come una tazza che s’infrange per terra. Dovrei introdurre un assassinio, fingere che la mia vita non sia soltanto tagliatelle, macchinine radiocomandate, chiodi e martelli. Sì, forse dovrei fingere. Ma ecco, quella vocina continua a ripetermi di essere me stesso. Sembra davvero mia madre.
Questa è la storia di Mark Stevens, scrittore di discreto successo che sognava una vita. Può andare come incipit? Sono nato il ventitré dicembre del 1971. Mio padre era avvocato, mia madre era biologa, ed io non ho potuto far altro che lanciare la monetina. “Se esce testa mi iscrivo a giurisprudenza, se esce croce a biologia”. Mi sono iscritto a lettere tra le bestemmie di mio padre e le lacrime di mia madre, ho raccolto per settimane libri di legge e fazzoletti bagnati dal pavimento. Ma sono fiero di me. Oggi lo posso dire, oggi che ho venduto lavori con il mio faccione in copertina sistemato con Photoshop. Ma non è stato facile, questo no.
Al liceo ero un asino, o il classico esempio di ragazzino “intelligente ma che non si applica”. Un asino travestito da genio pigro. Ovviamente i miei genitori non hanno mai creduto a questa versione, hanno pagato fior di quattrini per farmi imparare la matematica, mi hanno accompagnato a mostre d’arte e musei di scienza, ma il mio cervello vedeva soltanto il manuale di letteratura italiana.
Fine estratto.
Forse continuerò. Forse no.
Forse sì? 🙂
Chi lo sa 😊