Maturità 2016, Traccia tipologia D – Tema di ordine generale
«Il confine indica un limite comune, una separazione tra spazi contigui; è anche un modo per stabilire in via pacifica il diritto di proprietà di ognuno in un territorio conteso. La frontiera rappresenta invece la fine della terra, il limite ultimo oltre il quale avventurarsi significava andare al di là della superstizione contro il volere degli dèi, oltre il giusto e il consentito, verso l’inconoscibile che ne avrebbe scatenato l’invidia. Varcare la frontiera, significa inoltrarsi dentro un territorio fatto di terre aspre, dure, difficili, abitato da mostri pericolosi contro cui dover combattere. Vuol dire uscire da uno spazio familiare, conosciuto, rassicurante, ed entrare in quello dell’incertezza. Questo passaggio, oltrepassare la frontiera, muta anche il carattere di un individuo: al di là di essa si diventa stranieri, emigranti, diversi non solo per gli altri ma talvolta anche per se stessi.»
(Piero ZANINI, Significati del confine – I limiti naturali, storici, mentali – Edizioni scolastiche Mondadori, Milano 1997)
A partire dalla citazione, che apre ad ampie considerazioni sul significato etimologico-storico-simbolico del termine “confine”, il candidato rifletta, sulla base dei suoi studi e delle sue conoscenze e letture, sul concetto di confine: confini naturali, “muri” e reticolati, la costruzione dei confini nella storia recente, l’attraversamento dei confini, le guerre per i confini e le guerre sui confini, i confini superati e i confini riaffermati.
Il mondo è costruito in una fitta rete di confini, alcuni invalicabili, altri impercettibili, altri ancora dimenticati. E pensiamo che protagonista della storia sia l’uomo, ma fin troppe volte il confine ha generato guerre, che hanno generato morti, che hanno generato lacrime e sangue. Confini interiori prima che territoriali, corrispondono spesso alle nostre paure, al timore per l’ignoto, a quella forza che si oppone alle volontà e ci tiene incatenati alle sicurezze. Varcare un confine significa coraggio, ma nello stesso tempo significa anche futuro. Così come Ulisse, varcando le colonne d’Ercole, ha sfidato gli dei, allo stesso modo noi tutti, ogni mattina, usciamo dai confini delle nostre case e sfidiamo il caso, quello che a volte chiamiamo destino, altre volte fortuna. E così si vive. Ci sono voluti anni, a volte perfino secoli per abbattere anche i muri più infrangibili, come l’oceano, il deserto del Sahara, le foreste tropicali, ci sono voluti viaggi, propagande, fiducia, e nonostante tutto ancora si ha paura. Non è bastato il tempo per imparare. Nella vita di ogni giorno ci spaventa lo straniero, forse perché è diverso, forse per il timore che abbia più coraggio di noi, o magari soltanto per colpa dei luoghi comuni a cui ingenuamente ci affidiamo. Forse il vero problema è che non siamo noi soli a decidere. Non siamo i soli a costruire o abbattere muri in nome dei nostri ideali, e tante volte possiamo soltanto sbirciare tra le fessure dimenticate della parete perché qualcun altro ha deciso anche per noi. Penso in questo istante al muro di Berlino, che ha spaccato una città tracciando una riga tra i palazzi, ha separato famiglie, amici, fidanzati, mattone dopo mattone, e quel correre da una parte all’altra, per salvare quante più vite possibili, era una corsa contro il tempo, dalla quale molti sono usciti sconfitti. Penso anche ai territori del Medio Oriente, forme geometriche apparentemente incastrate assieme, come pezzi di un puzzle, e dietro di esse una moltitudine di religioni, lingue, tradizioni, cancellate da un pezzo di carta su cui è stato rappresentato il mondo. Muri che sono stati arbitrariamente costruiti, nonostante anni di storia ci insegnino ogni giorno che siamo tutti figli della stessa evoluzione, e che la pelle cambia colore, ma il valore di ciascuno di noi è scritto nell’anima. Hanno provato a cancellarlo con i lager, con il tentativo di rinchiudere un frammento di umanità tra barriere di filo spinato. Che cosa abbiamo imparato da allora? Forse a costruire un altro genere di muro, una rigida barriera fatta di parole, convinzioni preconfezionate dalla società, costruite in modo da apparire perfette, quasi innegabili. Ci viene detto che lo straniero ruba il lavoro a chi ha studiato, e ci crediamo, perché in qualche modo c’è chi riesce a costruire muri dentro di noi, muri impercettibili, che filtrano le nostre idee più sincere e le trasfigurano in qualche cosa di meno umano. Viviamo nel ventunesimo secolo, e ancora del filo spinato percorre il confine dell’Ungheria, quasi a proteggerla da una contaminazione, come se al di fuori di quei confini prestabiliti vivessero animali, bestie pericolose. Il neo-presidente degli Stati Uniti annuncia al mondo di voler costruire un muro al confine con il Messico: paura? Egocentrismo? Razzismo? Probabilmente sono dinamiche incomprensibili, ci affanniamo per dare una spiegazione a questo tentativo di distruggere la libertà, e non ci rendiamo conto che il problema non è il muro fatto di mattoni, il vero problema siamo noi, quando scappiamo da ciò che è sconosciuto e ci rifiutiamo di stringergli la mano. Percepiamo il mondo come un territorio limitato, che comprende i luoghi in cui viviamo, quelli che abbiamo visto, quelli a cui crediamo. Tutto il resto, fa paura. Una paura leggera, che scivola sull’aria, priva di fondamento, e non si lascia superare. Abbiamo la terribile necessità di vedere per credere, altrimenti sentiamo quasi di affidarci all’oscurità, a qualcosa di indecifrabile, che appare, sì, ma non sappiamo come sia realmente. Quanto tempo hanno impiegato gli americani per accettare quel colore bruno della pelle, di origine africana, quella cerchia che non poteva nulla, votare, esprimere un’idea, neppure scegliere in quale autobus salire: era una vita vissuta a metà. Poi un afroamericano è divenuto presidente degli Stati Uniti, ed è come cambiato tutto. A volte basta solo un gesto, un segno che dimostri l’inconsistenza di quei confini interiori che ci ostiniamo a portarci dietro. Basta poter toccare con mano il diverso e rendersi conto che diverso non è sinonimo di male. E quando saremo noi ad oltrepassare i confini delle nostre intime certezze, forse comprenderemo allora che un confine non è altro che un gradino della scala della vita, un po’ più alto di tutti gli altri gradini.
Voto: 9
Professore, grazie di tutto.
Ci stava anche un 10.
Sì, decisamente.
Mm mai visto dato da lui 😅
Un particolare è stato omesso – da malpensante, ritengo volutamente – nella traccia: i confini delimitano non solo una proprietà privata, ma preservano anche le radici di un’identità.
Bisogna ammetterlo: allo stato attuale non servono a niente, visto che nessuno li rispetta.
Tralasciando le barriere naturali, occorrerebbe invece erigere dei muri alti, solidi e costantemente sorvegliati; si dovrebbero varcare solo attraversando dei portali, in modo da poter decidere chi far entrare e chi no.
P. s.: il tema è scritto bene, ma credo che il voto sia più che altro un premio al buonismo di fondo.
Non so, ho un’altra idea a riguardo, probabilmente buonista sì… è che non riesco a vedere muri costruiti lungo i confini, capisco preservare l’identità, ma credo di possa fare con impegno e attenzione anche senza limiti fisici… forse sono giovane e quindi ingenua, ma i flussi migratori ci sono sempre stati e hanno portato a costruire appunto quelle radici, un po’ ovunque…
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