Professore, che dirle adesso? Ci ha conosciuti tardi, ha perduto due anni del nostro percorso liceale, eppure mi sembra di aver trascorso con lei anni ed anni di esperienze. È un complimento, e questa lettera la scrivo soltanto per lei. Ricordo il primo giorno in cui è entrato in classe, con lo sguardo severo, la borsa scura, il tono della voce minaccioso, come una madre che rimprovera il figliolo, e quella bacchetta di metallo che scagliava sulla cattedra per farci stare in silenzio. Sapeva quello che stava facendo, lo sapeva benissimo. Eravamo terrorizzati da lei, noi ingenui a sedici anni, non avevamo idea di che cosa sarebbe cambiato. Era la mia terza superiore, ed ho pensato, lo ammetto, che sarebbe stato un inferno. Ma c’è qualcosa di bellissimo, in lei. La passione, l’amore per il suo lavoro, la sua capacità di comprenderci e al tempo stesso di prenderci in giro, perché lei è un adulto, distante da noi, ci osserva da lontano e in qualche modo ci incoraggia, di nascosto. L’ho capito. L’ho capito tardi, dopo un anno. E ho capito che aveva lo sguardo lontano, anche quando tornavo al posto con il mio solito sei, sei meno, sei meno meno, mi arrabbiavo, perché volevo piacerle, volevo che mi considerasse, e invece mi perdevo nella massa di mediocri. Ricordo bene un’altra cosa di quell’anno: il dolce stilnovo. Mi sono appassionata insieme a lei, e mentre leggeva con il cuore le poesie del Petrarca, io ero percorsa da brividi che non saprei come spiegare, cercavo di nasconderli, quasi fossero un peccato da occultare, ma in quelle poesie ci ho sempre trovato un universo, ed è stato tutto grazie a lei. Erano le lezioni più belle, le lezioni più vere. Perchè poi, non è stato più soltanto terrore. Professore, lei che ha instaurato un rapporto meraviglioso con noi, lei merita il nostro grazie, merita ogni nostro applauso, e merita di essere ricordato. Ho in mente quelle sue prese in giro del momento, che forse dette da chiunque altro mi avrebbero fatto stare male, ma ridevo e rido ancora oggi davanti al suo “brutta elevato a potenza”, e quando domandava con un ghigno “Come si chiama lei? Teresina? Giovannina? Uuuh, Giorgia! Come la cantante! Lo sapeva?”. In qualche modo ha saputo farci comprendere che a volte è anche giusto scherzare, senza offendersi, senza combattere per difendere l’onore, anche se a volte le battute si facevano pesanti, anche se gravavano sulle giornate storte. Ma lo capiva, anche questo. Certo, di momenti complicati ce ne sono stati. Siamo stati una classe un po’ impossibile, come negarlo? Ma ad ogni compleanno abbiamo portato vassoi di pizzette e pasticcini. Ad ogni festività abbiamo festeggiato. Abbiamo chiesto di andare in gita con lei, anche se ci è stato negato. Abbiamo visitato con lei una decina di mostre. Guardato un film. Scattato una foto di classe. Credo che un bravo professore debba essere esattamente come lei. Non è perfetto, non lo è nessuno, ma porta dentro una cultura sconfinata che ogni volta mi faceva venire voglia di leggere, di studiare, di rimanere sveglia anche di notte per sfogliare la sezione di cultura dei quotidiani. Mi ha fatto credere in me stessa come non ci è mai riuscito nessuno. Ci è riuscito con quei sei, sei meno, sei meno meno che mi facevano gridare di rabbia, con la tentazione di rinunciare, di accontentarmi, di lasciar perdere, ma poi tornavo a casa, e mi ricordavo che avrei tanto voluto far parte dei suoi ricordi migliori. È un piccolo mio pretenzioso sogno, che un giorno si ricordi di quel testo su Pasolini, me lo ha fatto leggere davanti a tutti, in piedi accanto alla cattedra, ed è stata la prima volta in cui mi sono sentita dire “Hai fatto un buon lavoro”. Ho ripensato tanto a quel testo. È stata come una pagina nuova di un nuovo romanzo. Non posso dire che sia cambiato tutto, perché non mi ha mai concesso niente, e se mai dovevo meritarmi una porta in faccia, sono certa che mi avrebbe dato perfino quella, ma posso dire oggi che qualcosa, a me, lei lo ha lasciato. È una passione infinita, non come la sua, non potrebbe mai. E ammirazione. Pensavo, a volte, che da grande avrei potuto fare l’insegnante: avrei voluto essere come lei. Sarà una delle più grandi rinunce venire a trovarla e non poterle raccontare della facoltà di lettere, o di quel master in giornalismo su cui mia madre ancora sogna. Frequenterò economia. Lo so, non mi guardi così. Non mi chiami signorina, con quel suo tono e quel suo sguardo che non sono mai riuscita a sostenere. In questa lettera non voglio più parlare di me. È un grazie per chi ha reso questi nostri tre anni un po’ più speciali. Con i suoi mocaccini, con i caffè lunghi macchiati decaffeinati che non ho mai capito da dove arrivassero, con i biscottucci che offriva agli interrogati, con il gesso che puntualmente scompariva e lei mandava qualcuno in missione, e come dimenticare la sua penna Mont blanc, i ray ban da cui non si separa mai, l’agenda grossa come un dizionario, il tablettino malefico che estraeva i numeri per interrogare, lei è costruito alla perfezione, come un personaggio di un film. Conosce a memoria un oceano di frasi d’autore, eppure ama recitare “la favola bella, che ieri ci illuse, che oggi ci illude, o Ermione”. Potrebbe stringere amicizia con chiunque, eppure appena ne aveva l’occasione chiamava in classe la bidella Patty o Roberto, il tecnico di laboratorio, ed era una festa, anche a diciotto anni, perché anche lei a volte non aveva voglia di fare lezione. Eppure credo che lo abbia sempre saputo: lei è stato il nostro mito, il nostro punto di riferimento, una parte di questa classe sgangherata e folle che oggi non può far altro che inginocchiarsi per dirle grazie. Grazie professore, per esserci stato sempre. Grazie per averci portato fino a qui, con sacrifici, con sudore, con le verifiche a sorpresa, con quelle sgridate a gran voce che mi facevano abbassare la testa. Grazie per averci capiti, uno per uno, per aver capito le nostre potenzialità, e averci portato al nostro massimo, eravamo una scommessa, e lei ha vinto su tutti i fronti. Un grazie per tutti i momenti passati assieme, per quelle lezioni sul dolce stilnovo che conservo nel cassetto, per i momenti di risate in cui lo leggevo nei suoi occhi, era felice, dietro la sua cattedra, era felice davvero. Vorrei che fossero stati tutti così. E invece per cinque anni ho conosciuto professori nuovi, ho rivisto professori vecchi, ma nessuno merita una lettera, nessuno come lei. Le vogliamo bene, prof. Lo scrivo io, e penso di parlare a nome di tutti quanti, perché nessuno ha mai messo in dubbio la sua importanza, il suo essere duro e pazzo come nessun altro, anche inimitabile, a volte uno scoglio difficile, ma pur sempre brillante. È esattamente quel professore che, lo so, verrò a trovare. E sentirò la mancanza di lei, perché è stata una presenza forte, per tre anni del mio liceo.
Mio padre glielo ha detto, sulla porta, alla fine dell’ultimo colloquio. “Lei è stato un bravissimo professore, penso che sia il ricordo migliore che mia figlia si porterà con sè”. Lei ha risposto “Grazie. La saluto, ingegnere!”. Che dire? Non ci sarà più lei a far leggere le fotocopie dei miei temi ai miei genitori, perché io non ho mai avuto il coraggio di dar loro la brutta copia. In fondo, a volte nemmeno la facevo la brutta copia.
Professore, vorrei che fosse soltanto un arrivederci, vorrei che ci chiedesse se domani avremo latino o italiano, ma domani sarà già tardi, e ci saremo già detti addio.
“Forza e coraggio, che la vita è soltanto di passaggio, e la morte è già in viaggio”, lo diceva sempre lei. Mi ha sempre fatto coraggio. Dietro ogni cazzata, come le chiamava lei, c’era qualcosa, qualcosa che ho saputo raccogliere, e per tutto questo non smetto di ringraziarla. Non avrà ricevuto un bonus in busta paga o i complimenti della preside, ma forse la cosa che veramente conta, per un professore, sono i suoi studenti. La sua vecchia classe le ha scritto un cartello, con venticinque firme, e lo ha appeso alla sua macchina: lei lo ha conservato. Oggi vengono a trovarla in tanti, ed è bellissimo guardarla uscire, chiudere la porta e rivedere quegli studenti, tutti, anche i somari. Io ho con lei una foto, e non smetto di guardarla. Grazie, professore. Spero che questa straordinaria 5°I le resti un poco nel cuore.
Mi dispiace soltanto di non essere riuscita a dimostrarle quanto ci tengo, mi dispiace che in quell’ultimo giorno fino scuola lei se ne sia andato, senza nemmeno assaggiare la torta o le patatine. Professore, forse non lo crede, ma avremmo voluto almeno abbracciarla…
Ammetto un po’ di commozione. Penso che lettere come questa possano ripagare la fatica di chi ha fatto dell’insegnamento, non solo un lavoro ma una missione.Spero che lui possa aver letto queste righe.
Questo commento mi riempie di piacere, perché vuol dire che un degno grazie sono riuscita a scriverlo… a volte ci penso, di fare in modo che legga quello che scrivo, chissà se un giorno di riuscirò… 😀
stampalo e infilalo sotto le spazzole del cruscotto…ormai mi sembra collaudato come canale di comunicazione no? 😉