Vena del collo che pulsa, sguardo indemoniato, faccia che pare un semaforo. Credo che tutti abbiano assistito almeno una volta alla cosiddetta incazzatura di qualcuno. Solitamente tutto accade in un istante qualsiasi, in una giornata qualsiasi, così come uno pneumatico esplode mentre si viaggia in autostrada e l’auto si ribalta come una barchetta di carta. È come una granata. E Godzilla si impossessa del corpo umano, non prova più nessun tipo di dolore, non percepisce il principio di infarto, il braccio che lascia la sua impronta quando piomba sulla scrivania, l’ugola che se non fosse incollata alla gola sarebbe già volata sul lampadario. Nulla di tutto questo, solo devastante furia omicida. L’uomo incazzato è un dinosauro affamato. Lo riconosci perché sembra aver perso l’uso delle palpebre, come se le palle degli occhi spingessero per venire fuori, e poi c’è quel colore rosso bruciacchiato, quasi avesse messo la testa nel forno per un’ora. E infine urla. Un urlo disperato, le corde vocali che cigolano, una voce che pare provenire dall’oltretomba e che rimbalza tra le pareti drizzando i peli di chiunque si trovi nei paraggi. Grida in una stanza chiusa? Non importa. Le urla fuoriescono dalla serratura, si diffondono come un’epidemia, come un allarme in piena notte che non si spegne mai. L’uomo incazzato ha la violenza di un assassino, con la mano picchia furiosamente il tavolo quasi fosse una padella, e mena, e mena, fin quando non rimane il solco, e le falangi si spargono sul pavimento una dopo l’altra, il polso perde la sua sensibilità. E tra un colpo e l’altro volano per la stanza penne e quaderni, una specie di gara olimpionica di lancio del libro, mentre la sedia vaga indisturbata da un angolo all’altro. Quando gli parte l’embolo non lo ferma più nessuno. Ho visto uomini incazzati sollevare a due mani un tavolo e lanciarlo fuori da una stanza, ho visto uomini incazzati prendere a pedate la fotocopiatrice, ho visto uomini incazzati ricavare mille coriandoli da un solo foglio di carta. Dove? A scuola. Lo zoo per eccellenza. Come quando la professoressa di scienze ci ha urlato in faccia sbattendo forsennatamente il libro sulla cattedra, mentre il ciuffo ribelle andava a tempo con il battito del mattone sul legno. O come quando il bidello Andrea è stato cacciato a male parole e porte in faccia, reo di aver interrotto una lezione di fisica. Incazzato, adirato, furioso, chiamatelo come vi pare, ma vi assicuro che non c’è nulla di più pericoloso. Perché quelle urla le riconosci anche a chilometri di distanza, sono come la sirena dell’ambulanza, ti entrano dentro, un po’ come quando ti piazzi davanti agli altoparlanti e senti il tuo corpo ondeggiare investito dalle onde sonore. Quelle urla ti frantumano i timpani peggio del pianto di un bambino, peggio delle unghie sulla lavagna. E non puoi nemmeno ridere, con quello che la mia professoressa d’inglese chiama riso nervoso. Ecco, davanti alla furia omicida mi viene da scoppiare a ridere come se non ci fosse un domani, ridere mentre qualcuno scaglia vocabolari in giro per la classe in cerca dei fantomatici bigliettini, ridere mentre il professore ci mette 1 sul registro soltanto perché 0 non esiste, ridere perché mentre urla e si agita come un neonato il gesso finisce polverizzato, la cattedra sembra terremotata, e i libri vengono scagliati nella galassia accanto. Ridere. Mentre gli parte l’embolo e la vena del collo si gonfia come un airbag. Non riesco ad assistere a questi momenti di totale follia animalesca in serietà. Mi viene da ridere mentre ci affibia l’epiteto di “cretini”, scandendo la erre come se ce ne fossero sette, mentre cala il silenzio e si sente soltanto l’urlo di rabbia provenire dagli abissi, mentre perfino la professoressa di ginnastica riesce a dominare la scena piantandosi in bocca il fischietto deleterio. È così che ci si avvia verso la sordità. Da qualche embolo che parte, dal nulla, per una luna storta, il piede sbagliato appena uscito dal letto, piccolezze che si trasformano in catastrofi udibili anche ai poli. Da lontano scorgi lo yeti avanzare a grandi falcate, con i pugni chiusi e lo sguardo truce, e capisci che sì, sarà un inferno. E te lo aspetti, anche nelle persone che paiono più angeliche, tutte fragili e apparentemente dolci. Poi dai loro in mano una cattedra e un libro, e diventano maestri di karate, afferrano le pagine con entrambe le mani e piantano il libro nel legno con tutta la forza che hanno in corpo. E l’embolo parte per la tangente, come si dice dalle mie parti. Non lo riprendi più. La vena del collo sarà irrimediabilmente deformata. I capelli perduti doppia punta dopo doppia punta, le mani palmate per fare più rumore. Perché poi ci sono delle tecniche per picchiare il tavolo, mica è cosa semplice. E non è semplice nemmeno incazzarsi con classe, bisogna ammetterlo. C’è chi si limita a due parolacce e la testa china, e chi invece opta per una scena teatrale e plateale nell’atrio della scuola. Professore contro professore, due emboli partiti in situazione di parità, corde vocali rinforzate, un po’ come i calli del chitarrista, e acerrimi nemici l’uno dell’altro, con una voglia matta di litigare. La stessa voglia che hanno le donne di svaligiare una pasticceria prima del ciclo mestruale. E così è partito l’embolo, così durante la lezione di fisica il gomito del professore è rimasto incastrato dentro l’anta dell’armadio, così tutte le matite nei paraggi hanno perso la loro punta, così gli studenti hanno cominciato a chiedersi cosa fosse successo. E l’embolo gli é poi passato, magari il giorno dopo, magari dopo una settimana, magari dopo l’intervento della moglie o della Spa più vicina. Ma poi ti passa. Eppure da qualche parte ti restano le tracce di quella incazzatura in cui l’anello si è aperto a metà sbattendo sul tavolo… con delicatezza. Se le tracce restano a noi studenti, che vediamo i professori indemoniati compiere stragi, stracciare dei compiti e umiliare gli interrogati a suon di urla e gessi conficcati nella lavagna, ecco, se le tracce restano a noi, come potrebbero non restare anche ai professori?
Se ti parte l’embolo, in fondo si rischia l’embolia.
Quante cose mi hai fatto venire in mente con questo tuo post! Soprattutto ricordi scolastici ormai color seppia, ma costellati dalle urla dei professori e dalle risate mie e di un paio della mia cricca. Non riuscivamo mai a trattenerci dal ridere quando il crimine saliva per le vertebre dei cattadratici pomposi e solitamente composti. Uhhhh, bei tempi. Con infamia e senza lode. 🙂
Ricordo un mio collega di studi, chiamato da tutti “Flash”, perché era l’uomo più lento d’Europa. Il problema è che chiamalo “Flash” qui, “Flash” là, un giorno il prof di mate si è accodato e l’ha chiamato “Flash” pure lui… Non ti dico. Il buon “Flash” è diventato paonazzo, poi viola a strisce, ci ha messo 3 minuti per togliersi gli occhiali tremando e poi ha proferito: “Allora io ti chiamo ‘pelato del cazzo'”.
E’ partita la ola e per 5 minuti è stata festa.
Buona serata, Penny!
Allora vedo che le urla erano già presenti, non sono una novità! Devo dire che se fossi stata nei panni di flash una bella sedia in faccia a qualcuno sarebbe arrivata… per lo meno col pensiero, non sono una persona violenta 😆
Ahahaha!! Flash per lanciare una sedia ci avrebbe messo tutto l’intervallo… Lui era veloce solo nello scendere al bar, fare la posta al primo della classe che passava, e sfoderare il suo motto: “Offri??”. Mentre noi, solitamente, eravamo tutti presi nel confondere il barista durante la ressa. “Mi scaldi un panino al gorgonzola?” “Per me un wurstel e crauti!” (Mai stati in menu). Ma la mitica frase :”Mi scaldi un ghiacciolo?” non poteva mai mancare d’estate. Ahhhh, che bei tempi. La quinta soprattutto.
Per le urla, che dire. Soprattutto in laboratorio di chimica analitica ne partivano di ogni. Tra la prof, gli assistenti di laboratorio ed i secchioni, c’era sempre qualcuno che urlava. Uff, gente che non sapeva stare agli scherzi.
Bei tempi si! Credo che mi mancheranno anche le urla 😁
A me hai ricordato quando la mia insegnante di matematica aveva la vena del collo così gonfia che faceva paura e io immaginavo di infilarci dentro i rebbi di una forchetta per vedere che effetto faceva.
Ah è successo anche a me, non sai quante volte! 😅
E’ istintivo, come voler far scoppiare un palloncino.
Sono dell’idea che è meglio far sfiatare la pentola a pressione … rischiando… piuttosto che bruciare tutto e quindi implodere che è peggio😬🦋
Il paragone rende perfettamente l’idea, hai ragione :))
Meno male che bevo camomilla 😉
Continua a farlo! 😅
Wow, bellissimo, se ti va passa sul mio blog, tratto un argomento molto simile☺️🙈
Volentieri! :))