Ultimo giorno – Venerdì
Ho chiuso la valigia venerdì mattina alle cinque, l’ho riaperta alle otto, e poi ancora alle nove, come se il tempo non dovesse finire mai. Hanno cominciato a trasferire tutti i bagagli nella mia, nostra camera, era la prescelta, la mitica 408, e mi sentivo quasi un poco più importante di tutti gli altri, perché io una camera l’avevo ancora. Ho aspettato di vederla entrare, ma sono appena riuscita a scorgerla mentre rovistavo tra i vestiti sgualciti, senza idea di cosa cercare. Era il nostro ultimo giorno a Barcellona. Ci hanno portati a Montjuïc, e scaricati davanti alla città vista dall’alto, liberi. Eravamo liberi davvero. Qualcuno ha giocato a carte, ed io sono rimasta a guardare, con quella mia folle capacità di offendermi perché nessuno mi ha mai chiesto di partecipare, sono rimasta in piedi, arrabbiata perché nessuno mi chiedeva se volevo sedermi. Bruciava nel mio continuo pensare che quelle persone non cambiano mai, e i minuti nella rabbia parevano impietriti . Poi ci siamo alzati, guardati negli occhi, e abbiamo deciso che avremmo mangiato la paella tutti assieme. Certo, non tutti, ma in fondo una classe è una moltitudine di anime troppo vasta per rimanere totalmente unita. Abbiamo cercato il posto giusto, ed é stato il solo momento in cui camminare era come volare, non sentivo più la fatica, i chilometri sommarsi, ero felice di seguire quella massa di diciotto persone, ed entrare nel selfie di gruppo che conservo ora gelosamente nel cellulare. Erano quelle piccole occasioni che da sempre avevo cercato. Siamo arrivati davanti ad un ristorante, e per noi hanno preparato una stanza immensa, con un lungo tavolo per una ventina di persone, era forse la prima volta che sedevamo faccia a faccia, senza nessun professore in giro, solamente noi, da soli, in qualche angolo di Barcellona. La paella era buonissima. Non saprei descrivere quanto. Ed era bella, perfetta come un piatto da ristorante stellato. E la mangiavamo tutti, tra risate e chiacchiere ad alta voce, perfino quando quella è corsa in bagno con il pesce in gola, perché le frasi volavano da un capo all’altro del tavolo, ed era folle non ridere. Fuori dal ristorante l’ho seguita in una chiazza di sole, stretta nella felpa come faceva Lei, e poi siamo partiti, sempre diciotto, sempre in fila, abbiamo raggiunto l’albergo per l’ultima volta e siamo salite. La stanza 408 era piena di valige. Non sembrava quasi più la stessa. Camminavo tra gli stretti vicoli del pavimento e mi sentivo schiacciata dalla sensazione del tempo che scorre, perché dovevamo lasciare tutto, quella città, quella gita, quelle camere. Mi ha preso la malinconia, leggera, appena percettibile, come se in qualche modo mi consolasse l’idea che nel futuro ci sarebbe stata ancora. Camminando verso il treno con le valige appresso ho ripensato alla prima sera, il giorno del nostro arrivo, sembrava lunga una settimana, e invece avevamo già vissuto tutto. Le ruote facevano lo stesso rumore di quella prima sera, un borbottio continuo che cullava i miei pensieri tristi, mentre guardavo in avanti l’asfalto e vedevo il riflesso dei nostri momenti insieme. Finiscono sempre troppo presto, le gite scolastiche. In aeroporto ci siamo accampati sui tavoli di un ristorante chiuso, e poi al McDonald’s, io accanto a Lei, a mangiare le patatine molli come fossero una cena. Ma in quel momento volevo solo salire sull’aereo, cambiare aria, dormire. Eravamo tutti stanchi, tutti più schietti, tutti più spigolosi, ed io che non sapevo nemmeno con chi volessi stare cercavo di ricostruire una classe vera, ma non ci riuscivo mai. Ci siamo ritrovati in cerchio solamente quando Lei ha rischiato di perdere la carta di imbarco, e abbiamo cominciato a cercarla dovunque, perché in aeroporto sono tutti pronti a sbatterti le porte in faccia. Era caduta a terra, quella maledetta carta di imbarco. Come all’andata, sempre colpa di chi lì lavora ma non ne ha voglia, e allora rovista tra le giacche senza nemmeno guardare. Alla fine siamo saliti in aereo, e l’ultima immagine di Barcellona che ricordo è la mia classe, tutta raggomitolata sul fondo, ognuno sul proprio sedile, con gli auricolari e gli occhi chiusi. C’eravamo tutti, come a scuola. Avevamo condiviso quasi cinque giorni, ventiquattr’ore su ventiquattro, ed ora che tutto si era concluso dormivamo. Penso di essermi addormentata anch’io, in quello scomodo sedile di Ryanair che ti intorpidisce il collo, e mi sono risvegliata a Bologna, sulla pista di atterraggio, nel mezzo dell’applauso. Aspettando di scendere, abbiamo scoperto che la professoressa di scienze aveva pubblicato i voti della verifica sul registro elettronico: un bel 10. E cosa me ne facevo di un 10? Io volevo restare. Volevo ricominciare quella gita, magari cambiarla un poco, viverla ancora, di più, in ogni minuto, perché erano tanti quelli che avevo sprecato. Cosa me ne facevo di un 10? Siamo scesi dall’aereo, e in poco tempo ho ritrovato mio padre, in piedi ad aspettarmi. Sono tornata a casa con lui. E niente, l’ho rivista solamente nel parcheggio, per l’ultima volta, a vagare con la sua valigia rossa appresso, nel mentre che mio padre cercava l’uscita. Poi é sfumata così.
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