Storia di come ho preso la patente – L’auto nuova, mio padre, Francesca

La seconda guida l’ho fatta al buio, alle cinque di pomeriggio di un giorno di gennaio. E stranamente mi sentivo serena, era come se una parte di me si stesse abituando al profumo di quella macchina, come se stesse diventando anche un po’ mia. Sono andata piano, forse più piano di quanto mi sentivo, ma ho cercato di ascoltare tutto, di mettere in pratica tutti i suoi consigli, di accettare perfino il suo “A volte sembri spastica” detto ridendo, perché nessun commento riesce a ferirmi, a mettermi a disagio. Abbiamo anche parlato, del ritorno a scuola, del primo tre il secondo giorno dopo la fine delle vacanze, e quasi non mi sembrava di guidare, o di essere osservata. Mi ha fatta fermare davanti a casa, e salire lungo la mia strada è stato strano, era la prima volta che la vedevo da quella prospettiva, e mi è sembrata ancora più stretta di quanto non lo fosse in realtà.
Poi i miei genitori mi hanno comprato un’auto. Una twingo nera del 2008, apparentemente nuova, senza un graffio, perfetta come tutte quelle auto che sfrecciano sulla strada, e non saprei descrivere la sensazione che ho provato quando mio padre mi ha mostrato le chiavi. C’era un ciondolo, a forma di cane. Lo avevano comprato per me. Ho visto per la prima volta la mia macchina di sabato, sono tornata da scuola e sapevo che tutti mi avrebbero scritto qualche messaggio, chiesto una foto, il mio sogno di guidare era ormai noto a tutti gli amici, e ne avevo parlato con quella gioia mista al pudore di non sembrare vanitosa. Non ho forse ringraziato i miei genitori a dovere, ma avrei voluto saltare loro in braccio e stringerli forte forte.

Su quell’auto abbiamo accompagnato a casa la mia migliore amica, la domenica mattina, dopo aver dormito assieme nel mio letto nuovo, dopo aver mangiato le crepe alla Nutella a mezzanotte, dopo aver guardato un film fino alle due. Follie. E poi sono salita io al posto di guida, era strano, forse ancora non mi rendevo conto che quel volante, quel cambio, quei pedali, tutto sarebbe stato mio. Anzi, già lo era. È stata la prima volta in cui sono tornata a casa, con mio padre accanto, sulla mia macchina. Strade conosciute, altre mai viste prima, mi sembrava di essere su quell’auto da una vita, come se mi fosse sempre appartenuta.
La prima volta in cui ho guidato con mia mamma è stato una domenica mattina. Ho voluto mettere il moto la mia macchina e uscire dal garage, sembrava facile, mio padre faceva sembrare tutto così immediato, così banale, e invece. Invece mi sono ritrovata a lottare contro le dimensioni degli spazi, contro la retromarcia che non voleva inserirsi, contro la mia assurda ansia da prestazione, perché per me era una specie di esame di guida. Ma ce l’ho fatta, e un secondo dopo esserci riuscita, ferma davanti alla strada, ho lasciato dietro di me ogni pensiero. Ho guidato come se dietro di me non ci fosse nessuno, men che meno mia madre preoccupata, lei che ha paura del traffico, dell’asfalto, dei motori che rombano, ho guidato senza domandarmi troppo spesso quale gesto fare prima, se premere il pedale del freno o la frizione, ho guidato e basta. Non lo so come. Ma mia madre è stata felice, e lo sono stata anch’io.
Inutile dire che mio padre è stato speciale. Pieno di fiducia, di voglia, di entusiasmo, di pazienza, mi ha sempre messa a mio agio, mi ha fatto percorrere strade, per mettermi alla prova, e comporre manovre sempre più labirintiche, perché era sicuro che ce l’avrei fatta, non so nemmeno come facesse, ma saliva in macchina al mio fianco ed era sereno. Quando sono uscita per la prima volta dal garage, rischiando di rimetterci la portiera, era sereno. Quando lungo i viali ho sbagliato traiettoria, era sereno. Quando al semaforo, ferma in salita, ho lasciato spegnere per errore il motore, era sereno. È sempre stato sereno e pronto per aiutarmi, per darmi fiducia, per ripetermi che si può imparare tutto, ed io ho le capacità per riuscirci. Ho capito che in cortile devo andare piano, che lungo i viali devo spostarmi più a sinistra, che in salita devo fare attenzione, e lui ha sempre posato silenziosamente la mano sul freno, quello di stazionamento, ma non lo ha tirato mai. E per me significa molto. Perché ha sempre avuto fiducia in me, convinto che io potessi andare avanti, e nel caso riuscire a ripartire.
Anche Francesca, credo. Però con lei è sempre stato diverso. Ha uno sguardo completamente differente, attento ad ogni mossa, ogni dettaglio, ogni occhiata, all’ordine di azione, prima il freno, poi la frizione, è paradossalmente più tranquilla, perché i pedali giacciono anche ai suoi piedi, ma nello stesso tempo più cauta, perché è giusto che mi insegni tutto. Francesca nota cose di cui forse nemmeno io mi rendo conto. E mi serve tanto il fatto che me lo chieda, “Lo avevi notato?”, rispondo con onestà, e nel mentre ragiono, lo fisso nella memoria, perché devo imparare a notare anche questo, e quest’altro, avere cento occhi da distribuire in ogni angolo. Quando abbiamo cominciato a fare i primi parcheggi, è stato incredibile. Ero scettica, perché i parcheggi mi avevano sempre messa in crisi. Eppure me li ha spiegati con il sorriso, con un cellulare, un pacchetto di sigarette e un accendino, disposti come all’interno di un paio di strisce blu dipinte a terra. Il mio primo parcheggio non è stato un disastro. Me lo riconosco da sola, perché ogni tanto è giusto farlo. Me lo dice perfino Francesca, non devo partire con il pensiero che tanto si può sempre fare di meglio, devo partire con la sicurezza di chi è certo di stare facendo la cosa giusta, anche se di certezze ne ho poche. Devo trovarle. Anche a questo mi serve Francesca. Come in quei momenti in cui finalmente ci si perde a parlare, e ci raccontiamo fulminei momenti delle nostre vite, spero sempre di farla ridere, perché vorrei ripagare tutto quello che trasmette a me. Sí, probabilmente è l’autoscuola più cara della città. Ma non sono pentita.

Continua… 

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